La correttezza della repressione di piazza Tienanmen


La protesta di piazza Tienanmen è vista comunemente come una lotta per la libertà, e un esempio dell’oppressione cinese. Ancora oggi in Cina non se ne può parlare, tanto che un po’ di tempo fa un giovane giornalista venne arrestato solo per aver nominato la piazza; le autorità si accorsero poi che era assolutamente innocente, nel senso che la censura era stata così efficiente che non sapeva niente di quello che era accaduto e per questo non sapeva nemmeno che bisognava evitare anche di nominarla.

Quando nel 1989, sulla scia del caos che stava per decretare la fine dell’Unione Sovietica e delle proteste antigovernative in tutti i paesi satelliti dell’Europa orientale, anche gli studenti e gli intellettuali cinesi scesero in piazza. Il governo cinese non era però debole come quello polacco o bulgaro, e rispose con l’esercito e la repressione totale. Gli stranieri hanno di questo fatto una visione romantica, ad esempio nel 2009 il giornale la repubblica intitolava “le ali spezzate del sogno cinese” il giorno dell’anniversario dei fatti. Il governo di Deng Xiaoping invece doveva fare i conti con la realtà: l’Unione Sovietica col processo di democratizzazione avviato da Gorbaciov stava andando in frantumi, gli stati dell’Europa orientale vedevano i loro regimi messi al muro dalla folla protestante, se anche in governo cinese si fosse dimostrato debole avrebbe fatto la stessa fine.

Il problema però era più complesso, non riguardava semplicemente il mantenimento del potere per i politici e il partito, ma l’esistenza stessa dello stato. L’Unione Sovietica era un mega stato che aveva inglobato moltissimi territori che culturalmente e storicamente avevano poco o nulla a che fare con i russi, dalle repubbliche baltiche all’Ucraina, fino al Kazakistan e l’Uzbekistan. La Cina esisteva da molto più tempo, aveva molta più omogeneità culturale, a parte alcune zone come il Tibet e la Mongolia, ma anch’essa, date le sue grandi dimensioni, rischiava di cadere nella guerra civile, oppure che intere regioni dichiarassero indipendenza, magari spinte da qualche politico o generale locale. Era già successo più volte in passato, la Cina non è stata sempre unita, nonostante si dica di solito che l’impero cinese esiste da più di duemila anni ci sono stati diversi periodi di disunione in cui non esisteva uno stato unitario né un imperatore (o se esisteva aveva autorità solo su un territorio molto limitato). Questo è il rischio soprattutto di uno stato così enorme come quello cinese, non appena c’è una crisi politica, sociale o economica se il governo non è abbastanza forte e sveglio intere regioni possono andare per la loro strada.

In una situazione simile era necessario e doveroso reprimere una rivolta che, se si fosse diffusa al di là degli studenti e degli intellettuali tra la gente comune, avrebbe portato al collasso il paese. Se il governo avesse deciso di cedere alle istanze dei rivoltosi si sarebbe dimostrato debole, e avrebbe fatto la stessa fine di Gorbaciov un paio d’anni dopo, vedendo che non c’era pericolo e si poteva vincere le proteste si sarebbero diffuse sempre di più, anche perché i cinesi, di tutte le età, regioni ed educazione, avevano molte cose di cui lamentarsi. Le proteste di per sé non sono una cosa così negativa, ma c’è un tipo di esse che nessuno stato può permettere: le proteste contro il sistema su cui è basato lo stato. Ecco perché, ad esempio, in America il movimento di occupy Wall Street non poteva sperare di avere l’appoggio dello stato, o quantomeno di essere considerato un movimento di protesta come tanti altri. E perché la repressione delle proteste in Turchia non ha alcuna legittimità, a meno che Erdogan non ritenga che lo stato turco si basi sui centri commerciali, in quel caso cedere sarebbe una dimostrazione di ragionevolezza e magnanimità. Un governo corretto deve prima reprimere le contestazioni al sistema con assoluta decisione, e successivamente cercare di correggerlo. L’errore di Gorbaciov fu pensare di poter mantenere il controllo dello stato concedendo la libertà di parola e di informazione, e dandola immediatamente in misure eccessive a un popolo che non le aveva mai avute; così, ad esempio, estoni, lituani e lettoni scoprirono che non erano sempre stati sovietici, ma in passato erano indipendenti ed erano stati conquistati con la forza da Stalin, e immediatamente si ribellarono.  Non serve a niente essere giusti se non si ha la forza di imporre la propria giustizia, si crea solo un caos che diventa quasi sempre peggiore dell’ordine sotto un governo ingiusto.

Quando il governo americano represse con la forza la Shays’ rebellion, Jefferson commentò: “What signify a few lives lost in a century or two? The tree of liberty must from time to time be refreshed with the blood of patriots and tyrants. It is its natural manure.” (Cosa significano alcune vite perse in un secolo o due? L’albero della libertà deve ogni tanto essere rinfrescato dal sangue di patrioti e tiranni. È il suo concime naturale). La repressione dei moti di piazza Tienanmen potranno essere costati la vita a 2500 persone, ma se avessero avuto successo probabilmente ci sarebbero stati milioni di morti per fame o guerre civili.

Il fallimento della politica di Deng Xiaoping non è dipeso da questo, ma da una questione più filosofica: il suo famoso incitamento “arricchitevi!”. La sua apertura al capitalismo ha causato nei cinesi una sempre maggiore fame di denaro, di successo, di scalata sociale, fame che è diventata sempre maggiore negli ultimi anni col diffondersi di sempre maggiore ricchezza. Le sue riforme economiche nel breve e medio periodo hanno avuto successo, al contrario di quelle di Gorbaciov, ma sono state fondate su una filosofia sbagliata, i cui frutti si stanno vedendo pienamente ora. I cinesi si consumano nella competizione, quelli nelle campagne premono per vivere in città, dove possono sperare in una vita migliore, e quelli che vivono in città lottano per fare soldi, fare carriera, o far fare soldi e carriera ai loro figli. Anche la Cina nel suo complesso non ha fatto altro che diventare la fabbrica del mondo, lo stato più inquinante assieme agli Stati Uniti, e i fantastici dati sull’aumento del pil nascondono il fatto che se la crescita economica scendesse sotto il 5% annuo il paese sarebbe in rivolta, perché ci sarebbero milioni di disoccupati e di poveri che non saprebbero come vivere. Mao eccedeva nel senso opposto, pensando che la morale e l’educazione (che poi era in gran parte propaganda) potessero essere più forti non solo dell’egoismo, ma anche dei bisogni fondamentali degli esseri umani, però almeno la sua Cina una morale ce l’aveva, quella moderna non più. Non è una Cina confuciana, non è maoista, e non è né comunista né capitalista, o forse è semplicemente un capitalismo autocratico, ancora più ossessionato dell’occidente dall’idea del successo e del prestigio sociale.

E tutto questo ha causato e causerà molti più danni di quella manciata di vite perse a piazza Tienanmen. Ci sono i danni ambientali che colpiscono tutto il mondo, ci sono gli operai che muoiono nelle fabbriche e nelle miniere, o che vivono come schiavi, quelli che si guadagnano da vivere recuperando a mano l’acciaio dalle costruzioni abbattute, respirando tutti i detriti tossici, ci sono i bambini in tutto il mondo che si avvelenano con i giochi dipinti con vernici al piombo e con altri metalli pesanti…

Un’economia priva di morale, che sia capitalista americana, o comunista-capitalista cinese, o stalinista, è destinata al fallimento, e a causare ben più gravi problemi e disastri che un semplice episodio di proteste e di repressioni violente.


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