La rivoluzione necessita sempre il versamento di una certa quantità di sangue, sia nella storia dei popoli che in quella degli individui non c’è cambiamento e comprensione degli errori passati senza sofferenza. Per Eschilo la sofferenza era un meccanismo di purificazione, soffrendo l’uomo impara a proprie spese che esiste un ordine divino del mondo, che ci sono cose che non si devono fare, e il dolore porta gli esseri umani a riconsiderare le proprie azioni e ammettere le proprie colpe. Questo è abbastanza incontestabile nel momento in cui si tratta di sacrificare se stessi, pone invece molti più interrogativi e dubbi quando si pretende di sacrificare la vita degli altri in nome o del loro bene o della felicità del resto della popolazione.
Già lo storico Jean Michelet 150 anni fa faceva notare come la condanna a morte di Luigi XVI creasse una mentalità pericolosa e distorta nei rivoluzionari. Si accettava che la morte di uno servisse alla felicità di molti, e andando per questa strada era facile arrivare alla conclusione che anche la morte di due o tre persone poteva giovare al resto della popolazione, e, infine, che la morte di molti poteva essere positiva per la maggioranza della gente.
È vero che, come diceva Stalin, “non si può fare una frittata senza rompere le uova”. Ma è anche vero che è inutile rompere migliaia di uova se non c’è abbastanza gente per mangiare una frittata gigante, né ha senso che un cuoco, che dovrebbe dar da mangiare alla gente, passi la maggior parte del suo tempo a cercare uova e a romperle invece che cucinare. Allo stesso modo chi ha il potere o chi lotta per ottenerlo sono costretti a usare la violenza, o almeno a correre il rischio che sia l’altra parte a farlo; anche Gandhi quando portò milioni di indiani per le strade, anche se pacificamente, corse il rischio che la folla perdesse il controllo e si abbandonasse alla violenza (cosa che infatti poi accadde) o che gli inglesi perdessero la pazienza e incominciassero a sparare. Quello che fa la differenza è la proporzione di violenza che si è disposti ad accettare in rapporto al pericolo che si vuole prevenire o al crimine che si vuole punire.
La condanna a morte di Luigi XVI, ad esempio, fu alla fine giusta e comprensibile. C’era la paura che gli eserciti stranieri occupassero la Francia, e rimettessero i Borboni sul trono, per questo era necessario uccidere lui ed anche i bambini, in modo da estinguere la dinastia e rendere più difficile una possibile restaurazione senza un re legittimo. Se ci si fosse fermati a quello la rivoluzione sarebbe stata migliore, e probabilmente anche il resto della storia umana. Aveva ragione Saint-Just a dire che il re era colpevole in quanto re, e che la sua esistenza negava quella della repubblica, anche se all’epoca e anche oggi sembrava una posizione estrema. Non c’era alcuna necessità di un processo vero a Luigi XVI perché non era un criminale come, ad esempio, Berlusconi (che peraltro potrebbe e dovrebbe tranquillamente essere obiettivo anche di un processo politico, visti i danni che ha arrecato all’Italia), né era un uomo che avesse commesso atrocità ordinando l’esecuzione di centinaia di migliaia di uomini come nel caso di Stalin o dei gerarchi nazisti. Il suo era un processo politico, e come tale aveva un procedimento differente da un processo giuridico: in un processo politico può non esserci nessuna difesa, e puoi essere ucciso solo per quello che sei, più che per quello che hai fatto.
I processi politici a volte sono necessari per ristabilire l’ordine, quando c’è stato un brusco e sanguinoso cambiamento di regime. Ma c’è differenza tra il condannare un re perché simbolo di un ordine ingiusto e sorpassato e i processi politici dei comunisti in Russia contro i presunti nemici dello stato, quelli non erano realmente processi politici ma pura violenza di stato a cui si voleva dare un velo di legalità.
Un altro esempio di processo politico che fu mantenuto entro limiti ragionevoli fu la decapitazione di Carlo I da parte di Cromwell. Era stato versato sangue nella lotta tra i rivoluzionari e i realisti, e fu versato il sangue del re, ma Cromwell non andò oltre perseguitando i passati nemici e giustiziando sommariamente migliaia di persone. E infatti questo alla lunga ebbe i suoi benefici, perché l’Inghilterra poté avviarsi verso una lunga strada di progressive riforme che non ebbero bisogno di uno strappo violento come la rivoluzione francese. Gli inglesi poterono avere la “blodless revolution” (rivoluzione senza sangue) perché qualche decennio prima Cromwell di sangue ne aveva versato abbastanza, non troppo né troppo poco.
Ma in Francia ciò non poteva avvenire, soprattutto per la “democrazia” dei rivoluzionari, l’assenza cioè di un capo assoluto che potesse bloccare la violenza, e la grande influenza che gli umori del popolo avevano sui rivoluzionari che erano chiamati a prendere le decisioni politiche. Non è un caso se, ad esempio, la rivoluzione iraniana fu incruenta, era perché aveva Khomeini a guidarla, e così anche la cacciata del re da parte di Gheddafi, un grande leader può permettersi di fare una rivoluzione incruenta se la situazione lo permette, mentre le rivoluzioni popolari e democratiche sono per forza di cose sanguinarie.
Ma ancora più importante è cosa succede dopo la rivoluzione. Distruggere uno stato o un mondo vecchio può costare molte vite e molte risorse, ma creare uno stato e un mondo ingiusto costa sempre molte più vite dopo che durante la rivoluzione. Il tanto vituperato terrore di Robespierre fece decine di migliaia di vittime, ma le guerre napoleoniche ne fecero circa 4 milioni; i bolscevichi di Lenin uccisero tutta la famiglia dello zar e tutti coloro che erano nel suo palazzo quando vi fecero irruzione, ma Stalin uccise, direttamente e indirettamente molti milioni di persone. Una rivoluzione è sempre una scommessa col destino, non sai mai dove potrebbe andare a finire: i francesi non potevano immaginare che dieci anni dopo aver ucciso il re la Francia avrebbe avuto un imperatore. Ma il modo in cui incomincia influisce pesantemente su come poi potrà continuare, se si uccide con troppa leggerezza quasi certamente anche il nuovo stato che nascerà da quella rivoluzione ucciderà senza troppa leggerezza, perché a uno stato come a un uomo è difficile insegnare la morale una volta che si è superata l’età dell’infanzia. Come diceva Sciascia, bisogna farlo nelle scuole elementari, dopo è già tardi.