L’ambiguità dei titoli da Augusto a Berlusconi


In tutte le forme di governo esistono dei titoli che esprimono potere e funzioni istituzionali. Quando certi governi decadono ed entrano in crisi e degli uomini nuovi arrivano a prendere il potere, spesso per evitare transizioni troppo traumatiche, che potrebbero essere male accolte dal popolo o da gruppi di elite (l’esercito, i sacerdoti, la nobiltà…), decidono di assumere titoli o soprannomi particolari ed equivoci. Il primo a farlo fu Ottaviano, che quando divenne più o meno a tutti gli effetti imperatore si fece chiamare “Augusto”, che in latino ha il doppio significato sia di “uomo pio, che venera gli dei”, sia di “uomo degno di essere venerato come un dio”. Augusto non voleva assumere il titolo di re, come forse avrebbe cercato di fare Cesare se avesse continuato a vivere (o come comunque i senatori temevano volesse fare), per non fare la stessa fine del suo predecessore, così si fece assegnare tutte le cariche politiche esistenti (edile, pretore, pontefice, tribuno…) potendo così avere un potere quasi illimitato, ma lasciando ai patrizi la possibilità di continuare a concorrere per quelle cariche, non sottraendogli così il piacere di continuare a farsi la guerra per una carica ambita. Il titolo di Augusto era un suggerimento del potere effettivo che lui aveva, e che non era formalizzato da nessuna legge e nessuna carica istituzionale.

La storia ha visto diversi altri esempi simili, il più facile da trovare è Berlusconi, che è sempre stato chiamato “presidente” dopo la sua entrata in politica, indipendentemente dal fatto che in quel momento fosse effettivamente presidente del consiglio oppure no. Tecnicamente questo era accettabile perché Berlusconi possedendo Mediaset e decine di altre società è presidente di molte di esse, ma la parola con lui è sempre stata usata in maniera equivoca, sottintendendo il significato politico del termine, ed indicando quindi che indipendentemente da chi nominalmente deteneva il potere lui era l’unico vero “presidente”. Questo poi va al di là dell’ambiguità per come è sempre stato usato dai suoi sostenitori, abituati a chiamarlo “presidente” senza nessuna traccia di ambiguità nell’uso del termine, un uso che in qualunque altra democrazia non avrebbe alcun senso; nessun capo di partito nel momento in cui non è più primo ministro verrebbe mai chiamato così all’estero, anche dai suoi sostenitori che vorrebbero che lo ridiventasse, perché sono perfettamente coscienti che ora non lo è più e non lo è ancora. Nel caso di Berlusconi il suo potere è invece chiaramente personale, non deriva da nessuna investitura, lui è presidente e basta allo stesso modo in cui è proprietario del Milan, se poi va bene vince le elezioni, allo stesso modo in cui vince il campionato, ma questo non cambia il fatto che lui è sempre presidente, la vittoria delle elezioni è solo una cosa in più che si aggiunge al titolo.

Un altro esempio ovvio è Mussolini, che fu soprannominato duce non dai fascisti, come molti potrebbero pensare, né per sua invenzione, ma venne chiamato così nella gioventù dai socialisti romagnoli, e conservò poi quel soprannome trasformandolo in un titolo informale durante la dittatura. Informale perché ufficialmente Mussolini era solo capo del governo, il titolo di duce era usato in maniera del tutto simile a quello di Augusto, per creare una figura di potere all’interno di un sistema che non la prevedeva. Non potendo farsi nominare re, né riuscendo ad abolire la monarchia, e non potendo accontentarsi del titolo di presidente del consiglio, Mussolini trovò nella parola duce una nuova definizione di se stesso. Quando poi Starace andò a capo del partito fascista creò l’obbligo del “saluto al duce” ogni volta che ci si salutava, e propose anche di obbligare a scrivere “viva il duce!” alla fine di ogni lettera (Mussolini gli fece notare come sarebbe stata sconveniente una lettera del tipo “la si informa della morte di suo figlio al fronte. Viva il duce!”). Quella parola duce aveva in sé sia l’idea del capo militare invincibile come Cesare, sia dell’uomo al di sopra di tutto e di tutti e che non può essere contraddetto (da cui la frase “il duce ha sempre ragione”, inventata da Leo Longanesi), e furono proprio queste due idee che lo portarono ad essere sempre più lontano dal popolo e a inseguire il desiderio del trionfo militare, che lo portò all’alleanza con Hitler.

Altri soprannomi sono più innocui, ad esempio Gheddafi era chiamato “colonnello” perché era un militare, e non aveva mai assunto dei titoli effettivi nello stato libico, che aveva il suo parlamento e il suo governo. Questo era dovuto al fatto che Gheddafi aveva scacciato il re, ma non aveva nessun titolo per autoproclamarsi come nuovo monarca, né sarebbe stato consigliabile dal punto di vista propagandistico visto quando era disprezzata la monarchia, così si mantenne al potere senza titoli ufficiali. Ma non c’era in questo nessun desiderio di ingannare il popolo, né il titolo di “colonnello” ha qualche implicazione ambigua, non significa che fosse un santo né era una carica politica.

Un altro che ebbe un soprannome particolare fu Nehru, il presidente dell’India nei primi decenni dopo l’indipendenza nel 1947, che era chiamato “pandit”, termine che indica normalmente uno studioso dei testi sacri indù, ma che dagli indiani era generalmente pronunciato con lo stesso tono in cui il più fervente dei cattolici potrebbe pronunciare “santo padre”. Pochi uomini nella storia furono oggetto di una adorazione più cieca e grande di Nehru, soprattutto considerando che non era un dittatore (anche se aveva poteri molto ampi e se solo avesse voluto avrebbe potuto diventarlo) e non ha mai utilizzato alcuna propaganda, ma era proprio il sincero sentimento della gente che lo vedeva come il salvatore dell’India, colui che aveva conquistato l’indipendenza e che l’avrebbe guidata verso un futuro di modernizzazione e di ricchezza. “Pandit” nel suo caso poteva essere tradotto quindi quasi come “santo”.

Infine c’è il modo in cui i politici parlano di se stessi, al di là dei titoli formali e informali che assumono o coi quali si fanno chiamare. Mi pare fosse Victor Hugo che nei Miserabili mostrava un soldato che diceva di Napoleone “Finché diceva “la Francia” l’ho amato e seguito; quando ha incominciato a dire “la Francia e io” l’ho rispettato e ho continuato a seguirlo; quando ha incominciato a dire “io e la Francia” non l’ho rispettato più ma ho continuato a seguirlo; quando ha finito per dire solo “io” ho smesso di seguirlo”.


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