Ho già discusso in un passato articolo sulla differenza tra il processo giuridico e il processo politico, e di come quest’ultimo risponda ad altre leggi, e possa (e anzi debba) tendere a giustizie sommarie, rapide e senza veri processi. In quell’articolo parlavo della condanna a morte di Luigi XVI e di tutta la famiglia reale, più il terrore che ne seguì, adesso vorrei ritornare sull’argomento con un esempio moderno e italiano: la condanna dei mafiosi e la lotta alla mafia.
Questo video è molto interessante perché offre molti spunti, il figlio di Provenzano cerca di perorare la causa del padre chiedendo per lui un regime meno duro, dicendo che sembra essere sempre più assente mentalmente ed è già malato di cancro. Dice anche altre due cose interessanti: la prima è che se lo stato non vuole concedergli neanche le cure più basilari allora sarebbe meglio che si reintroducesse la pena di morte; la seconda riguarda Falcone e Borsellino, di cui dice che sono stati servitori dello stato ma non che sono stati uccisi dalla mafia.
Non sono d’accordo con il commento del fratello di Borsellino in studio che diceva che si trattava di un linguaggio mafioso, non è così semplice schierarsi con lo stato o con la mafia come diceva Santoro. Non tanto perché lui è figlio di Provenzano, quello che voleva far capire col discorso su Falcone e Borsellino è che loro sono stati uccisi anche dallo stato, non semplicemente dalla mafia. Sono stati uccisi soprattutto perché indagavano sugli appalti, sulle tangenti, e cercavano di seguire il flusso dei soldi, flusso che andava in maniera consistente verso i partiti, i politici e gli imprenditori collusi a loro vicini. In una situazione simile è molto difficile dire “io sto con lo stato”. Quale stato? Quello che per anni ha avuto come capi Andreotti e Berlusconi, che facevano entrambi affari proficui con la mafia? E che protezione potrebbe dargli uno stato simile? Che mondo nuovo si potrebbe mai sperare di creare partendo da loro?
A me è sembrato un ragazzo sincero, che crede nella legge e nella giustizia, ma non crede e non può credere nello stato e nella politica. Non può andare dal padre e chiedergli di confessare tutto perché sa che se anche gli dicesse di sì il giorno dopo sarebbe probabilmente ucciso da qualche uomo dei servizi segreti, perché i politici non hanno nessun interesse che i boss si mettano a parlare.
Errato è invece il ragionamento sulla pena di morte. Il 41 bis a cui i boss sono sottoposti, e che rischia di minarli seriamente nel corpo e nella mente, e si può considerare anche a tutti gli effetti una tortura, non è fatto allo scopo di punirli. Qui sta la contraddizione giudiziaria speciale nel caso della mafia: il problema del mafioso è che a differenza di tutti gli altri criminali lui può continuare a delinquere anche in carcere, dando ordini, gestendo l’organizzazione e ordinando esecuzioni. Il 41 bis quindi è fatto per isolare totalmente i boss e impedirgli qualunque contatto con l’esterno, cosa che va contro una gestione umana dei carcerati, ma non viene fatta perché sono dei mostri e bisogna punirli ulteriormente dei loro crimini. Allo stesso modo non si può concedere a un boss il soggiorno in un ospedale psichiatrico, perché c’è sempre il rischio che tutti i pareri medici sul suo stato mentale siano stati comprati o estorti con la forza.
Per questo quello che diceva il figlio di Provenzano per provocare è assolutamente corretto: sarebbe meglio ucciderli tutti.
Sarebbe meglio farlo perché possono continuare ad essere pericolosi anche in carcere, e in futuro potrebbero magari evadere. E perché il problema della mafia esula il problema giudiziario, è un problema politico e sociale, e quindi va risolto con dei processi politici. Non si tratta di istituire la pena di morte per punire i gravi reati dei mafiosi, si tratta di ucciderli per uccidere la mafia, così come in una guerra non è che ti metti selettivamente a colpire i soldati che ti sembra siano più cattivi, se sono nemici li combatti tutti, e li combatti uccidendoli. Come diceva Borsellino giustamente se lo stato fa la guerra alla mafia si vede. Se non si vede nulla è perché questa guerra non c’è. Certo c’è qualche arresto, e ogni tanto qualche boss cade per merito di una polizia con ben pochi mezzi e nessun appoggio politico, ma per il resto c’è il silenzio. Le fiction sulla mafia e sulla camorra vengono fatte dallo stesso Berlusconi che ospitava un boss della mafia a casa sua, e gli italiani si fanno un’idea della mafia a partire da quelle storie, un po’ come se il Papa producesse film che raccontano la storia dei preti pedofili. La mafia è solo quel mucchio di gangster che sparacchiano in tv, sempre senza mai rapporti con qualche politico, sempre senza occuparsi mai di appalti, di rifiuti, di ponti sullo stretto…
La realtà è che mafia e politica vanno a braccetto, e la prima non potrebbe mai esistere senza la seconda, perché è una sorta di parassita, di stato ombra che riscuote consensi e utili finanziari solo se c’è uno stato da cui succhiare il sangue. Per questo uno stato vero userebbe l’esercito, istituirebbe la legge marziale e semplicemente li fucilerebbe tutti fino alla loro estinzione, come fece ad esempio nel caso del brigantaggio. Non ci sono altri modi, non ci sono mezze misure, non ci possono essere se i magistrati e i politici onesti rischiano sempre di saltare in aria, se sanno che lo stato quasi certamente non li proteggerà, e se anche lo facesse ci sarà sempre qualche talpa che rivela informazioni utile, e qualche servizio segreto “deviato” che dà una mano ai mafiosi negli attentati e nei successivi depistaggi.
Purtroppo uno stato che mandi l’esercito potrebbe esserci solo dopo una rivoluzione, come fu nel caso di Mussolini, perché tutti gli stati democratici sono troppo deboli e soprattutto troppo collusi con la mafia per combatterla. Solo un dittatore può fare una vera e propria guerra alla mafia, sia perché ne ha il potere che perché la mafia costituirebbe un freno alla dittatura; mentre uno stato democratico, soprattutto in Italia, può accettare senza troppi problemi di dividere il potere con qualche altra organizzazione, come la mafia, la Chiesa o le banche, con la scusa che sarebbe illiberale imporre la legge marziale contro il crimine organizzato o imporre pesanti restrizioni e tasse al crimine legalizzato del potere religioso e finanziario.
La strada alternativa all’uso di una violenza su larga scala per sconfiggere la mafia sarebbe l’educazione e il potenziamento della polizia e del sistema giudiziario. Ma anche in questo caso il problema sono i politici, per educare servono degli educatori e degli esempi, e gli esempi che dà la politica italiana sono quasi sempre di politici approfittatori che si mangiano i soldi mentre le scuole cadono a pezzi e la polizia non ha nemmeno i soldi per la benzina. Per educare alla legalità servirebbe uno stato che non prima di tutto non ruba, che non è il primo a essere mafioso. Il famoso pentito Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di cosa nostra, che si occupava di mediare le tangenti sugli appalti tra la mafia e i politici, diceva che i più esigenti e affamati di soldi che lui doveva cercare di frenare erano proprio i politici, a confronto i mafiosi erano più ragionevoli e si accontentavano di meno. E questo avveniva ai tempi della democrazia cristiana, in cui la corruzione era meno generalizzata, si doveva mantenere una certa apparenza e, nel caso si venisse scoperti, si rischiava abbastanza (Salvo Lima ad esempio fu cacciato dal partito quando venne indagato per mafia, Cuffaro invece venne mandato al parlamento per salvarlo), figuriamoci come possono essere le cose oggi.
È vero che ci sono tante persone oneste, ma il 70-80% dei politici o è corrotto, o è corruttibile, o è almeno ricattabile, ed è circondato da colleghi che non fanno altro che dargli il cattivo esempio e dirgli che è normale comportarsi così. Non c’è possibilità di rigenerare la classe politica immettendo qualche persona nuova e onesta, solo una grande rivoluzione come quella francese che versi il sangue di questi politici può portare un vero rinnovamento. E la classe politica italiana è infinitamente peggiore dei nobili francesi di duecento anni fa, perché allora almeno la piccola nobiltà (che fu vittima anch’essa dell’assalto ai castelli e della rabbia del popolo) non aveva chissà quali privilegi e mancanza di responsabilità; mentre in Italia anche i piccoli politici, i consiglieri regionali, provinciali e comunali, sono da buttare, anche se in percentuale inferiore rispetto ai parlamentari.
Il problema della mafia è un problema politico, non giudiziario o di polizia, per risolverlo bisogna prima cambiare la politica.